E’ MORTO IL BOSS MATTEO MESSINA DENARO

Era stato arrestato, otto mesi fa in una clinica di Palermo, dopo 30 anni di latitanza. Era già noto che avesse un tumore al colon, per i medici che lo hanno seguito anche irreversibile e lui stesso ne era consapevole e aveva già lasciato il testamento biologico. Alle 2 della notte, all’ospedale dell’Aquila dove si trovava ricoverato, con uno stato comatoso ormai avviato da ore, è morto MATTEO MESSINA DENARO (foto in alto), sino alla cattura considerato il nuovo capo di Cosa nostra siciliana e il primo nell’elenco dei latitanti ricercati sul territorio nazionale. Le ultime ore del “padrino” di Castelvetrano e il profilo criminale nel servizio sul link Sicilia News…

GIUSEPPE LAZZARO

Dopo un’agonia di alcuni giorni è morto, poco prima delle 2 della notte all’ospedale dell’Aquila il boss Matteo Messina Denaro, l’ultimo stragista di Cosa nostra arrestato a gennaio dopo 30 anni di latitanza. Il capomafia 61enne soffriva di una grave forma di tumore al colon che gli era stata diagnosticata mentre era ancora ricercato, a fine 2020. Il corpo si trova ora in uno dei sotterranei dell’obitorio dell’ospedale aquilano che dista non più di cento metri dalla camera-cella nella quale era ricoverato dallo scorso 8 agosto. Fuori dall’obitorio qualche telecamera, pochi fotografi e pochi giornalisti ma una presenza compatta di tutte le forze dell’ordine. Non ci sono curiosi, ma solo addetti ai lavori a presidiare l’ingresso dell’obitorio. La Procura dell’Aquila, di concerto con quella di Palermo, ha disposto l’autopsia che verrà eseguita nell’ospedale dell’Aquila. Nelle prossime ore sarà possibile capire la destinazione della salma.

LA MALATTIA NEL SUPERCARCERE DE L’AQUILA – Dopo la cattura Messina Denaro è stato sottoposto alla chemioterapia nel supercarcere dell’Aquila dove gli era stata allestita una sorta di infermeria attigua alla cella. Una equipe di oncologi e di infermieri del nosocomio abruzzese ha costantemente seguito il paziente apparso subito, comunque, in gravissime condizioni. Nei 9 mesi di detenzione, il padrino di Castelvetrano è stato sottoposto a due operazioni chirurgiche legate alle complicanze del cancro. Dall’ultimo non si è più ripreso, tanto che i medici hanno deciso di non rimandarlo in carcere ma di curarlo in una stanza di massima sicurezza dell’ospedale. Venerdì scorso, sulla base del testamento biologico lasciato dal boss che ha rifiutato l’accanimento terapeutico, gli è stata interrotta l’alimentazione ed è stato dichiarato in coma irreversibile. Nei giorni scorsi la Direzione sanitaria della Asl dell’Aquila ha cominciato a organizzare le fasi successive alla morte del boss e quelle della riconsegna della salma alla famiglia, rappresentata dalla nipote e legale, avvocato Lorenza Guttadauro e dalla giovane figlia Lorenza Alagna, riconosciuta recentemente e incontrata per la prima volta nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila ad aprile. La ragazza, con la nipote del boss e la sorella Giovanna, gli è stata accanto negli ultimi giorni.

GLI ULTIMI COLLOQUI CON LA FIGLIA E I MAGISTRATI – I magistrati, in questi mesi di detenzione, l’ex latitante li ha incontrati tre volte accettando di rispondere alle domande del Procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, del Procuratore aggiunto Paolo Guido, dei sostituti procuratori Gianluca De Leo e Piero Padova e a quelle del Gip del Tribunale di Palermo Alfredo Montalto. “Io non mi pento”, ha messo in chiaro da subito ammettendo solo quel che non poteva negare, come il possesso della pistola trovata nel covo, e negando tutto il resto: l’appartenenza a Cosa nostra, gli omicidi, specie quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino rapito nel giugno 1993, strangolato e ucciso nel gennaio 1996, le stragi, i traffici di droga. “Stavo bene di famiglia”, ha spiegato ribadendo che comunque dei suoi beni, tutti ancora da trovare, non avrebbe parlato. “Se non mi fossi ammalato non mi avreste preso”, ha detto sfottente ai pm spiegando che è stato il cancro a fargli abbassare le difese e a portarli sulle sue tracce.

IL PROFILO

Prima o poi lo prenderemo”. Nella promessa di mettere fine alla latitanza di Matteo Messina Denaro si sono esercitati in questi anni ministri dell’Interno, investigatori, magistrati. L’ultima “primula rossa” di Cosa nostra, arrestato il 16 gennaio scorso nella clinica “La Maddalena” a Palermo, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent’anni fa, il 15 gennaio 1993. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss, il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento. È così che è stato demolito il mito di un “padrino” che gestiva un potere infinito ma viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre due volte. Di una figlia si sa tutto: il nome, la madre, le scelte che l’hanno portata a separare la propria vita dall’ombra pesante di un padre che, forse, non ha mai visto. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in casa della nonna, poi con la madre ha cambiato residenza: non è facile convivere con lo stress delle perquisizioni, dei controlli e delle irruzioni della polizia. Dell’altro figlio si sa invece quel poco che è trapelato dalle intercettazioni: si chiama Francesco, come il vecchio patriarca della dinasty e papà di Matteo, ed è nato tra il 2004 e il 2005 in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano e Partanna, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale. Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato di sé solo l’immagine di un implacabile playboy con gli occhiali Ray Ban, le camicie griffate e un elegante casual. E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende: grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d’oro, maniaco dei videogiochi, appassionato consumatore di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome insieme a quello con il quale lo chiamavano i suoi fedelissimi. Un altro ancora glielo hanno affibiato i suoi biografi “U siccu”: testa dell’acqua, cioè fonte inesauribile di un fiume sotterraneo. Anche nei soprannomi Matteo Messina Denaro impersonava il doppio volto di un capo capace di coniugare la dimensione tradizionale e familiare della mafia con la sua versione più moderna. Il “padrino” di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l’erede di Bernardo Provenzano ma, soprattutto, del padre don Ciccio, altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. E da allora “Diabolik” era sempre riuscito, a volte con fortunose acrobazie degne dell’imprendibile personaggio del fumetto, a sfuggire ai blitz. Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori. Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote. E tanta gente fidata, costituita da prestanome spesso insospettabili, che hanno subito ripetuti sequestri patrimoniali. Il fantasma di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent’anni, a cominciare dalle stragi del 1992, a Capaci e in via D’Amelio a Palermo, in cui furono uccisi i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e otto agenti delle scorte, è stata riconosciuta la sua mano. Lui stesso, del resto, si vantava di avere “ucciso tante persone da riempire un cimitero”. Ma se la fama di uomo spietato gli viene riconosciuta, qualche dubbio si è insinuato sulla sua reale capacità di ricostruire, dopo gli arresti di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, la struttura unitaria di Cosa nostra intaccata dagli arresti e da un processo di frammentazione. Un boss che ha traghettato Cosa nostra nel secondo millennio, senza però riuscire a evitare di fare la stessa fine dei vecchi “padrini”.

Edited by, lunedì 25 settembre 2023, ore 11,07. 

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